venerdì 3 ottobre 2014

Fango

Festa dei nonni / 02 ottobre 2014

La piccola ha le mani nel fango. 
Qualche baffo marrone le solca le guance.
“Nonno, nonno: vuoi?” domanda sorridendo.
La torta è una collinetta di fango.
Cocci di vaso a mo’ di ciliegie candite.
Un bastoncino di legno in centro, a far da candela.
“Soltanto un pezzetto” dice il nonno.
La piccola allora ne taglia una fettina, con la paletta da orto. Il risultato però è da pasticceria.
“Quant'è?” le chiede poi il nonno, serio.
“Una foglia e mezza” ribatte la piccola.
Il nonno allora ne raccoglie due, belle grandi, ai piedi del Kaki.
“Tieni pure il resto” le dice pizzicando la torta con le dita.
“Grazie nonno, spero che sia buona...” dice la piccola mordendosi il labbro inferiore.
Il nonno ne mette un bel pezzo in bocca.
Mastica.
Butta giù.
“E’ buonissima” le dice sorridendo. “Davvero... Buonissima”.




giovedì 18 settembre 2014

Denti gialli

Ho i denti gialli ma questo la piccina ancora non lo sa. I suoi occhietti un po’ pipistrelli svolazzano disorientati qua e là, compiono piroette a mezz’aria, sbattono dritti sugli scaffali del supermercato e alla fine precipitano, esausti, ai piedi della gente che cammina incurante.
“E mammina dov’è?”.
Che carini, ci facciamo la stessa domanda io e lei. Solo che a me fa piacere saperla lontana mentre la piccina la vorrebbe sempre accanto ed è giusto così, si capisce. Le nostre nature sono così diverse: lei è solo una bambina ed io sono già un bastardo.
Adesso guarda in su: “Che brava!”. Ma sopra la testa della piccina non c’è un dio ma una reclam che balla le correnti d’aria. Una donna bionda con un dado vegetale tra le dita e un piatto di minestra di cartone che fuma verso il soffitto. Da dove sono io sembra che gli si rovesci sulla testa a ogni folata di vento. Mi toccherà salvarla.
“E mammina? Dov’è?”.
Lontana, abbastanza lontana, ma non troppo, ‘che certi sguardi sono come dei guinzagli e me lo dice l’esperienza: non c’è da fidarsi. A volte pare proprio che certi piccoli siano abbandonati nei loro troni metallici a rotelle, vegliati soltanto dal caso o da qualche mezzo chilo di spaghetti particolarmente volenteroso e invece... Bisogna fare attenzione.
“E mammina, dov’è?”

‘Che se la piccina d’un tratto sorride il motivo non sono di certo i miei denti gialli.  

giovedì 11 settembre 2014

I Doriano


L’armadietto non lo usi no, l’armadietto è diventato anzitutto un dimenticatoio, una pattumiera dei ricordi che apri si e no una volta al mese. Avresti dovuto tenerci dentro la giacca, i vestiti o almeno le scarpe da lavoro (quelle con la punta rinforzata e la catena antifuga...) e invece ci hai ficcato dentro la sciarpa tarocca della tua squadra di calcio, la collezione di pacchetti vuoti Marlboro, uno spazzolino setole morbide color verde acqua e mezzo tubetto di pasta dentifricia marca Durban’s che a tirarla appresso a qualcuno l’ammazzi di certo.

martedì 29 luglio 2014

L'estate

Poco fa ho incrociato l’Estate, stava camminando a bordo strada con due borse della spesa piene di creme solari e braccialetti della fortuna.

Ho accostato con l’auto poco più in là e quando m’è arrivata a tiro del finestrino le ho domandato: “Ma dove diamine ti eri cacciata?” e lei mi ha risposto che è depressa, che piange spesso e che esce solo per fare provviste.
M’ha detto che da quando l’Anticiclone delle Azzorre l’ha lasciata si sente più fragile, poco protetta e non riesce proprio a star su.

E io l’ho interrogata: “Ma cosa fai durante il giorno?”

M’ha risposto che sta quasi sempre a letto e soltanto verso mezzogiorno si alza a scaldare qualcosa, se le va. Al pomeriggio invece le piace guardare quei vecchi film in bianco e nero dove anche il sole è grigio ma la gente sembra contenta lo stesso.

Allora mi ha fatto pena e mi sono offerto di darle un passaggio.

Lei mi ha ringraziato tanto, ma ha rifiutato. M’ha ricordato che le stagioni devono andare avanti e indietro per conto loro: non si può portarsele appresso, neanche per un po’ e lei, seppur depressa, è pur sempre una stagione.


Perciò l’ho salutata e sono ripartito, rischiavo di far tardi: lei comunque m’è rimasta nel retrovisore per un po’ e poi è sparita, in mezzo al frumento.

mercoledì 18 giugno 2014

Una ricetta per domani

Corri, corri. Corri sempre. Corri da sempre. Poi, una mattina, un pensiero ti blocca. Ti si infila nella mente come farebbe un bastone tra le ruote di una bicicletta e ti ritrovi scaraventato a terra a cinquanta, settanta metri di distanza a fare conoscenza con l’asfalto e con un dolore del tutto inaspettato.
“Quando?”.
Te lo chiedi solo allora: “Quand’è cambiata la realtà?”.

martedì 10 giugno 2014

Le patatine

Sono in cassa al supermercato. C’è un po’ di fila, niente di eccessivo.
Dietro di me c’è una donna senza carrello. Tra le braccia due pacchi di pasta e poco altro.
Sto meditando di farla passare quando un uomo si avvicina. Sembra indiano ma potrebbe essere semplicemente troppo abbronzato. Sembra un Clarke Gable biscottato e senza brillantina.

Il Gable indiano regge due lattine di coca e un sacchetto di patatine formato famiglia. Si ferma lì vicino e per un po’ guarda la donna di sottecchi, poi si fa coraggio:
“Cosa è qui?” dice indicando la confezione di patatine.
La donna colta di sorpresa ha uno scossone e quasi le cadono le mezze penne.
“Cosa? Vuoi sapere cosa c’è scritto?” chiede al Gable indiano ed io mi stupisco della sua prontezza di riflessi.
“Sì” le risponde l'uomo imbarazzato.
“E’ scritto: “Solo patatine italiane fritte in puro olio di girasole...”
“No qui...” l’interrompe il Gable indiano puntando il dito su una scritta rossa.
“Lì c’è scritto “Croccanti”” spiega la donna.
“Eh?”
“Croccanti. Non so come spiegarti cosa vuol dire croccante...”
“Eh?”
“Le patatine sono croccanti!” sentenzia infine la donna.
“Bene per bambini?” le chiede allora il Gable indiano.
“Ah sì... Vanno bene!”

Il Gable indiano sorride.
La donna sorride.
Poi alzano la testa e mi vedono sorridere.

“Prego” dico e faccio passare avanti entrambi.


martedì 3 giugno 2014

La porta

Di solito non si fa in tempo a suonare che la serratura scatta e la porta si apre, ma stavolta non è così. Ho già suonato due volte e sono indeciso se fare un terzo tentativo. In fondo all’anima ho una voglia matta di voltare i tacchi e andarmene: non ci tengo poi molto a farmi agguantare dal dentista. 
Invece sto lì, in attesa. Non suono, resto in ascolto. Da dietro la porta non arrivano i soliti ronzii degli impianti di trivellazione e neppure il risucchio della maledetta cannetta aspiratutto.
E’ un silenzio che mi inquieta, e non poco. Penso a chi deve trovarsi là dentro, sotto le lampade alogene, sui lettini reclinabili e non riesco proprio ad immaginarmelo in buona salute. Lo penso drogato a tradimento con un fazzoletto al cloroformio, immobilizzato al lettino con delle cinghie spesse un dito e larghe tre e sanguinante, straordinariamente sanguinante dalla bocca.

Ciononostante fatico ad andarmene. Me ne sto in piedi, immobile davanti alla porta chiusa a trasformare il mio dentista e i suoi assistenti in spietati aguzzini e nonostante tutto non me la do a gambe, non ce la faccio. Ho messo radici anzi e le radici camminano già sotto il pavimento e in qualche maniera esplorano di soppiatto il mondo al di là della porta invadendo la sala d’aspetto, sollevando al passaggio le piastrelle, alzando da terra le seggiole siamesi che grattano costantemente il muro con gli schienali di plastica.
Da lì, dal mio rifugio esterno, ora mi par di cogliere dei tonfi, del rumori attutiti, come provenienti da oscure profondità marine. Dei passi pesanti zittiti dalla moquette, delle mazzate smorzate da una montagna di capelli... L’orrore ormai m’ha circondato i pensieri, spalancato gli occhi, cucito la bocca, cementato i piedi e non mi riesce un solo respiro. Di colpo mi sento oppresso dalla penombra del pianerottolo, minacciato dalla bava di vento che infesta la tromba delle scale, abbandonato da tutto e da tutti ad un destino quanto mai crudele.   

Mi sento quasi venir meno e cerco di prepararmi alla caduta quando alle mie spalle una porta si apre su di una sala d’aspetto illuminata. Ne esce un omaccione sulla settantina, capelli bianchi, naso rosso e una mano poggiata su di una guancia gonfia e dolente. Uscendo s’accorge che lo fisso stupito o meglio, instupidito e non può fare a meno parlarmi: “Beato lei...” dice chiamando l’ascensore: “Beato lei che non deve andare dal dentista!”. 


martedì 27 maggio 2014

Il pomodoro

Apre il frigo, dentro c’è un pomodoro.
Altezza occhi. Si guardano.
Chiude il portello e resta lì, perplesso.
Una mano nei capelli. L’altra ancora sulla maniglia.
Apre di nuovo il frigo, il pomodoro è ancora lì.
Rosso. Fresco. Sembra ancora attaccato alla pianta.
La luce gialla gli dona. Lo fa sembrare magico.
Tutto attorno al pomodoro è il deserto. Niente di niente.
Non ha fatto la spesa.
Non ci sono avanzi.
Niente vasetti con cetriolini galleggianti.
Niente culi di salame.
Niente di niente.
Solo il pomodoro.
Lui e il pomodoro sono gli unici esseri viventi nei paraggi.
Le piante da appartamento sono tutte morte.
Alle formiche è piaciuto lo schiuma-party.
C’era un moscone. Ieri sbatteva sui vetri. Oggi è gambe all’aria da qualche parte.
Però tecnicamente anche il pomodoro è già morto. O no?
Mentre il frigo gli alita addosso lui si mette a pescare ricordi.
L’ultima spesa?
L’ultima volta che è passata mamma?
L’ultimo pomodoro mangiato?
Chiude il portello e si allontana pensieroso.
Come fa ad essere ancora così?
E’ rosso. E’ immacolato. Sembra appena tirato giù dalla pianta.

E’ domenica.
Mezzogiorno scivola giù dal campanile.
Attraversa il sagrato.
Scivola tra le gambe delle signore.
Inforca via Verdi.
Taglia a destra per via Meucci.
Al civico 21 si infila in un portone e poi su per le scale.
Terzo piano, prima porta a destra.
Lui è dentro, scalzo sulle mattonelle. Pensa ancora al pomodoro.
Mezzogiorno si fa passare per un brivido.
Sale sui piedi.
Scala la schiena.
S’attacca ai denti.
E su, su.
In bocca diventa liquido e lui lo butta giù come niente.
Non appena entra nello stomaco Mezzogiorno diventa fame.
Lui allora torna indietro. La fame lo spinge.
Apre il frigo.
Agguanta il pomodoro.
Lo addenta.
Un rivolo arancione gli scivola veloce da un angolo della bocca.
Sul mento rallenta.
Si gonfia, diventa goccia e poi cade. Giù.
Si spalma tutta sul suo piede sinistro.
Pian piano torna il rivolo e la corsa riparte.

Il pomodoro non è affatto stopposo.
Lui lo trova buono. Molto. Quasi dissetante.
E’ un incontro fortunato.
Mai mangiato uno così.
In piedi. Scalzo. Davanti al frigo aperto.
Senza lavarlo.
Senza condirlo.
Senza sapere di dove è venuto.
Finito si succhia le dita.
Si ripulisce il mento col dorso della mano.
S’asciuga la mano sulle braghe del pigiama.
Infine chiude il frigo.
Dice: “Addio, pomodoro”.
Ma è solo un arrivederci.

Subito dentro cade qualcosa.
Senza preavviso. Senza rumore.
Uno straccio appallottolato. O meglio, una spugna.
Lui la sente bere dentro allo stomaco.
Gonfiarsi.
Occupare.
Grattare le pareti.
Ora sente anche il freddo ai piedi.
No, il freddo è dentro.
Dentro le ossa. Nei muscoli. Nei tessuti interni.
Qualcosa in lui sta mutando.
Il fisico.
I connotati.
I sentimenti.
La fame non c’è più.
Tutto è compromesso. Ora.
Tutto è compromesso da un pomodoro.
Un pomodoro immortale.  

(epilogo)
Rannicchiato sul divano.
Mani a X sulla pancia.
Sopporta a fatica.
Se stesso.
La tv accesa.
E quel tizio che parla di coltivazioni.
Di varietà e di conserve.

Di pomodori. 




giovedì 22 maggio 2014

La fesa

Al banco dei salumi si serve il numero 43.
O meglio, la numero 43: una donnetta in camiciola con i capelli in rivolta.
La commessa si gira e la guarda con lo stesso interesse con il quale fissa le olive sotto sale.
“Prego” dice, ma non è la verità.
La donnetta allora si spalma tutta sul vetro del bancone e allunga il dito in perfetto stile E.T.
“Della Fesa. Mi dia della Fesa di tacchino” ordina.
Al che la commessa ha un attimo di smarrimento. Sembra non ricordare dove l’ha vista l’ultima volta: “La Fesa... La Fesa... Vediamo...” pensa fra sé, mascherando l’imbarazzo con un balletto ai piedi del salame ungherese.
Infine ricorda. Ricorda e agguanta il mattone giusto, quello rosa, color pelle umana.
Lo posiziona sull’affettatrice e poi si volta: “Quanto gliene faccio signora?” domanda alla prima faccia che le capita a tiro: un vecchietto tutto intento a decifrare la sua stessa calligrafia su un foglietto macchiato d’unto e saliva.
“Due etti, tagliata sottile...” annuncia la donnetta ritornata verticale: “Ma che resti “in fetta” mi raccomando!” aggiunge poi cercando inutilmente consensi tra il pubblico.

L’unica cosa che ottiene è di far montare i nervi alla commessa che in verità pare predisposta geneticamente all’incazzatura. Un tantino imballata si volta verso i clienti con una faccia alla Kathy Bates in Misery non deve morire. E’ terrificante.
Un bambino in prima fila incrocia lo sguardo assassino e poveretto si piscia subito addosso tutto il Belthé che ha in vescica con il padre, lì a fianco, che dissimula il guaio improvvisando un “Gesù cammina sulle acque” del laghetto giallo e in piena espansione.
“Guardi che non è possibile” sostiene la commessa: “Se la taglio sottile la fetta si sfalda, è nomale”.
La donnina però ha fatto in tempo a buttare i timpani: “La Fesa la voglio in fetta, sennò non me la mangiano...”
Al che la commessa prende su tutti i suoi chili di troppo e lascia la postazione brandendo una pinza dalla quale penzola qualcosa che somiglia tanto ad una mascella sudata. “Veda...” dice avanzando minacciosa verso la donnetta: “Veda se le va bene così...” aggiunge e sventolando la finta mascella a brandelli a mo’ di bandiera fa rivoltare un bel po’ di stomaci.

Neanche un minuto dopo la donnetta è in cassa con della Fesa di tacchino che non mangerà nessuno. 


Kathy Bates  in Misery non deve morire