Corri, corri. Corri sempre.
Corri da sempre. Poi, una mattina, un pensiero ti blocca. Ti si infila nella
mente come farebbe un bastone tra le ruote di una bicicletta e ti ritrovi
scaraventato a terra a cinquanta, settanta metri di distanza a fare conoscenza
con l’asfalto e con un dolore del tutto inaspettato.
“Quando?”.
Te lo chiedi solo allora: “Quand’è
cambiata la realtà?”.
Ieri sera hai aperto la porta
di casa con le chiavi e così hai fatto l’altra sera e quella prima ancora. E chissà
da quanto tempo va avanti, da quando infilare una chiave nella toppa di casa
non è più una novità.
Prima bastava che ti facessi
vedere. Che parcheggiassi nei pressi del cancello. Che ti avvicinassi come senza
intenzione al citofono. Il portoncino metallico scattava e un attimo dopo la
porta di casa ti proponeva una porzione illuminata di ingresso.
Era lei, ma per vederla
bisognava che fossi veloce a fare i gradini. Solo correndo facevi in tempo a
cogliere qualche sua parola mentre se ne tornava svelta alla precedente
occupazione.
Stava impastando.
Stava spolverando.
Stava lavando i piatti.
Raramente, era con Mike
Bongiorno.
Era così da sempre e sarebbe
stato così per sempre.
O quantomeno era quello che
pensavi, veramente.
Adesso la porta te la apri da
solo ed entri al buio come un ladro o come uno che vuole tenersi nascosto
qualcosa. L’unica luce viene dalla cucina, ma ti è difficile entrare. Anche
solo fermarti e ficcare il naso là dentro indugiando coi piedi nel corridoio, al
buio, appare uno sforzo insopportabile. Eppure lei è sempre lei ed è lì a pochi
passi quasi centenaria come la maggior parte dei mobili della sua camera da
letto. Ha una sedia a rotelle sotto il sedere, le mani coperte da guanti di
lana per via della cattiva circolazione e gli occhi liquidi di chi piange
spesso.
Non sai che dire, perché
adesso ogni parola sembra fuori posto, inutile. Prima potevi raccontarle di
tutto e ridere dei suoi consigli, delle parole storpiate le uscivano di bocca.
Di quelle te ne ricordi ancora parecchie, ma pagheresti per sentirne ancora una
dalla sua voce.
“Stupido”.
Sembra quasi tocchi a lei
chiederti come stai, strapparti un sorriso, per falso che sia. Certo potrebbe
almeno facilitarti le cose guardandoti, ma non lo fa mai. I suoi occhi azzurri
seguono invece uno strano percorso.
Te ne accorgi un giorno, per
caso. Sembrano fermi, fissi nel vuoto, ancorati a qualcosa che sembra essere allo
stesso tempo invisibile e prezioso, qualcosa che pensi potrebbe somigliare alla
giovinezza. E invece sono vivi, si muovono ancora.
Il loro è un movimento rapido,
difficile da notare, è un guizzare cadenzato in direzione di certi oggetti
particolari. Il bruciatore del gas, il rubinetto del lavello, la cornetta del
citofono. Il giro è sempre quello e non dura che pochi attimi.
Bruciatore, rubinetto,
citofono.
Bruciatore, rubinetto,
citofono.
Sulle prime non sai dare un
nome a questa cosa, un senso a queste occhiate furtive, ma le volte successive,
mano a mano che ti ci abitui, ti riesce di chiamarla vita.
Una domenica ti viene un’idea.
Ti presenti a casa e fai in
modo di restare solo con lei.
Non hai ancora ripreso a
correre, non ci riesci più, non bene come prima. Quel pensiero di lei è diventato
un freno a mano mentale e adesso non fai altro arrancare. Sai, vuoi, devi
andare avanti, ma... C’è sempre un “ma” a spezzarti il fiato, a farti perdere
il filo delle cose. Così dopo un po’ che ci provi anche l’idea più balzana inizia
a sembrarti vincente. Riesci a vederci una via d’uscita, una medicina al tuo
malessere quotidiano.
Sabato pomeriggio vai a fare
la spesa e la mattina dopo ti presenti a casa con una borsetta di nylon gialla.
Dentro c’è tutto quello che serve: uova, farina, zucchero, olio di semi, un
sacchetto di uva sultanina, del lievito in polvere e sei mele gialle, molto
mature.
L’idea dell’impasto t’è venuta
per caso, in pasticceria. Hai preso uno di quei pasticcini con sopra una fetta
di mela glassata e in un attimo te ne sei ricordato. La torta è tornata su dal
passato attraversandoti lo stomaco col suo profumo, col suo calore.
Ti sei rivisto piccino con le
mani impiastricciate e il naso ricoperto di farina. Allora hai alzato lo
sguardo e l’hai rivista in piedi, accanto a te: più giovane, più energica; non sei
più riuscito a toglierti di mente la ricetta della sua torta di mele.
Al supermercato è stato
facile. La sua voce ti ha guidato tra le scansie e tu con l’acquolina in bocca hai
preso tutto il necessario. Quando sei uscito però avevi la sensazione che ti
mancasse qualcosa. Qualcosa di importante come il coraggio o la convinzione di
voler andare fino in fondo.
Poi però ti sei sentito
meglio. La sua cucina ti è amica quasi quanto lei, i pensili hanno ancora
qualcuna delle impronte delle tue dita nascoste da qualche parte.
Man mano che svuotavi il
sacchetto hai preso sempre più fiducia. Hai allineato gli ingredienti sul
tavolo. Hai trovato il recipiente al primo colpo. Il cucchiaio di legno era
proprio dove ricordavi che fosse, nel primo cassetto, assieme ai coltelli.
La domenica lei sembra una
bambola. L’infermiera la lava e la veste di pulito. Le mette uno di quei suoi
tanti vestiti a fiori e la pettina con una spazzola che sembra grande il doppio
della sua testa. In effetti anche il vestito sembra enorme, ci naviga dentro,
la sua anima è una boa in mezzo a un mare di fiori gialli e viola. Prima di
andarsene l’infermiera la mette sulla sedia a rotelle la accosta alla finestra.
E’ lì che la trovi. Il suo corpo quantomeno.
Fuori c’è una bella giornata,
il sole e tutto il resto. Ci sarebbe da guardare il paesaggio, le piante
ondeggiare per via del venticello. Lei fa il solito giro, dentro. I suoi occhi
sono sul bruciatore. Sul rubinetto. Sul citofono. Il giro è sempre quello, ma
adesso è un incantesimo che pensi di poter spezzare.
Gonfi d’aria i polmoni e poi
cominci col sbucciare le mele. Con cura, lentamente, stando ben attento a non
sprecare il frutto lasciandone troppo attaccato alla buccia. Alla seconda mela
scarti pochissimo, sei bravo, ma non c’è nessuno a dirtelo. Lei è sempre
appresso alle fermate del suo treno. Non ci sei e forse non ci sei mai stato.
Però la cucina ti trasmette sicurezza.
La mente è sgombra da cattivi pensieri. Il cuore è dov’è sempre stato ma non lo
senti più, non come prima. Mentre fai a pezzetti le mele all’interno del
recipiente ti sembra di rinascere, di rifarti piccino e di ricrescere felice,
piano piano. Rompi un uovo sopra le mele e dai una prima mescolata, poi ci
versi il latte e l’olio e mescoli di nuovo.
La ricetta che hai imparato
non c’è. Te ne rendi conto soltanto in quel momento. Tutto ciò che lei ti ha
insegnato è avere occhio per gli ingredienti e magari per le cose, in generale.
Aggiungi la farina a pugni e ti fai un giro sui suoi nuvoloni bianchi. Quando
girare il cucchiaio diventa appena un po’ più difficile vuol dire che basta,
che hai fatto il giusto, ma se la fatica è troppa allora ci vuole ancora del
latte. Un goccio appena, una correzione.
Abbandoni la tua creatura sul
tavolo e vai dritto al forno. Giri il pomello, lo tieni schiacciato per qualche
secondo. La scintilla si mangia il gas metano e subito una corona azzurra
investe il re della cucina. Resti fermo ad ammirarlo e nel contempo ti curi di
sfuggirgli, di non farti cogliere impreparato dal suo calore.
Quanto ti volti lei è li con
te. Non al bruciatore, non al rubinetto e nemmeno al citofono. I suoi occhi
accarezzano i tuoi capelli e sembrano sciogliersi, farsi liquidi su di te, però
quando ti sposti noti con tristezza che restano lì, fermi sul vetro del forno. Non
sono più tuoi.
Torni all’impasto e subito lo ravvivi
con due giri di cucchiaio. Ora tocca all’uvetta sultanina e al lievito. Accompagni
ogni pensiero ad un gesto, ma quando pensi di aver finiti ti accorgi che invece
manca qualcosa. E’ quel goccetto di grappa che lei nascondeva dietro ad un
interrogativo. Ti chiedeva sempre: “Ce lo mettiamo?”, ma poi non si curava dei
tuoi: “No”: schizzava l’impasto imponendo i suoi gusti ai tuoi: “E’ più buona”
diceva lasciandoti interdetto.
E tu poi l’hai rimosso. Hai
rimosso quell’ingrediente. E’ stata senza dubbio una ripicca mentale, ma adesso
te ne dispiace, perché ti pare un tradimento. Un oltraggio al maestro. E non
puoi fare niente per rimediare: in quella casa la grappa manca da almeno un
decennio e lo sai. Manca da quando gli ospiti hanno smesso di considerarsi
tali.
Lasci correre, fai fatica, ma
lasci correre. Del resto se anche ti avanzasse un desiderio non lo sprecheresti
per una bottiglia di grappa. Ci combineresti come minimo un salvataggio. O una
rinascita. O un intervallo. Fai questi pensieri e in fondo non li capisci
nemmeno. La tua mente cerca una teglia per la torta, ma lo fa saltellando lungo
la linea che sta a cavallo tra il presente e il passato. Apri i pensili
pensando: “Dov’era?”, “Dov’è?”.
Ti senti stanco da morire. Le
tue ossa scricchiolano nel mentre ti chini a prendere una tortiera dal fondo
antiaderente. Non è quello che ti aspettavi, ma l’importante è che c’è. Ci
versi dentro l’impasto, l’appiattisci col lato convesso del cucchiaio e poi lo
decori con qualche fettina di mela.
Fai tutto il giro della
tortiera e nel frattempo pensi a quando quello stesso gesto ti ricordava il
Gioco dell’Oca. Immaginavi di preparare il tabellone e di saltellarci sopra con
il tuo segnalino. “Che fantasie si hanno da bambini” pensi mentre inforni
l’impasto e carichi il timer per stare più tranquillo.
Guardi l’orologio a muro e poi
guardi lei. Sono le dieci e mezza e lei è tornata al suo giro abituale:
bruciatore, rubinetto, citofono. Bruciatore, rubinetto, citofono. E’ un vagare
senza fine.
Ti avvicini a lei e per la
prima volta in trent’anni ti permetti di toccarla. Di farle una cosa semplice
come una carezza sulla guancia.
I quaranta minuti di cottura
sono un’attesa che in qualche modo riesce a renderti libero, leggero nel corpo
e nella mente. Allora trascini una seggiola accanto alla finestra e ti metti
vicino a lei. Vicino a quell’essere immobile che ti ispira invece movimento.
Accanto a lei è un viaggiare continuo attraverso le età, le consuetudini e le
mancanze di una vita che ne ha dentro molte altre e una di queste è senz’altro la
tua.
E basta quel poco di serenità a
chiuderti gli occhi, a spingerti in un sonno leggero, cullato e guidato dal
ticchettio molesto del timer che
brucia i minuti che ti stanno attorno e insieme minaccia il tuo timido sognare
in bilico sullo schienale di una sedia sgangherata.
Quando scatta finalmente il
segnale acustico il cuore ti balza dritto in gola. Ritrovi la stanza bagnata di
zucchero e i tuoi occhi, che fanno il giro del soffitto scacciando ipotesi
sbagliate sul presente, per un attimo si fanno beffare dall’ultimo sogno.
Allora accetti che la tua
mente svuoti la sedia a rotelle e rimetta lei in piedi, davanti al forno, con
la mano destra in un guanto e nel guanto la tua torta di mele fumante. E’ una
visione che ti rende felice e insieme affamato e anche se dura poco sai che è
un regalo grande che ti fa la vita. E’ la tua porzione di felicità e non hai
che servitene, farla tua, per un po’.
Poi di colpo il sogno finisce e la realtà
rimette tutte le cose al suo posto. Lei torna a sedere inanimata accanto alla
finestra e tu ti alzi a controllare, a spegnere, a sfilare, a odorare, a
tagliare, ad assaggiare, a ridere, a piangere. E senza che te ne accorga stai
di nuovo correndo, hai ripreso e continuerai a correre. Corri ora, corri, e
ancora correrai, domani.(ciao)
Nessun commento:
Posta un commento