La stanza è una bolla di silenzio in un mare di intenso frastuono. L’ovatta alle pareti pende lunga, bianca ed eroica come una barba di mago, ma non compie magie. La fabbrica spande rumore da ogni singolo bullone, da ogni singola vite che si stringe sui miei giorni. Nei capannoni ogni movimento è una bomba che esplode, una pioggia di schegge di baccano che si infilzano ovunque.
Ed io sono lì, dentro a quella bolla che aspetto. Rimbalzo io stesso i rumori che oltrepassano le barriere facendomi scudo con le spalle e stringendomi forte alla scrivania per non finire sbalzato. Sotto i piedi il pavimento sussulta forte. Le vibrazioni a volte arrivano lente, svogliate, quasi impercettibili e a volte giungono violente come le ondate di un mare arrabbiato che viene a travolgermi col suo rumore schiumoso.
Non mi spaventa più nulla ormai. Non salto sulla sedia in nessun caso. Quando squilla il telefono la suoneria apre in due la stanza e mi consegna al mio angolo, alla mia cabina personale ed io di ogni conversazione non perdo nemmeno mezza parola.
“Ma dove sei?” mi dicono dall'altra parte della cornetta. Ed io me la rido perché a loro il rumore guasta ancora il timpano.
A me no, a me non più: “Sono dove mi hai cercato!” dico senza alzare la voce, senza sforzarmi di raggiungerli: cazzi loro se non sentono, cazzi loro...
Nella mia bolla si suona e si danza contemporaneamente. Una frustata di citofono sembra un assolo di tromba. La signorina rappresentante di chissà che e di chissà cosa entra dalla porta principale e i suoi lunghi capelli castani diventano subito inquieti. Le ci vorrebbe una spruzzata di lacca per fermare lo sciame sismico che ha in testa:
“Ma.. ma cosa fate qua?” mi chiede. “Stampaggio lamiera” le dico ma soprattutto: “Rumore, rumore, montagne di rumore...” sussurro coperto dai rimbalzi amici del mio compare, il metallo.
“Ah” dice e già si vede sta imparando il jingle: “Tum tum-tum-tum Tum!”.
“Ma come fa lei a stare qui dentro?” mi chiede ed io le sorrido perché è la centesima persona che me lo chiede e perché è carina:
“Come faccio...” dico: “E’ il mio lavoro. Star qui dentro...”, le spiego indicando l’ufficio: “E’ il mio lavoro”.
Allora la vedo scioccata e mi chiedo se sente che le monetine nella sua tasca tintinnano come se lei stesse saltando: “E un po’ di musica?” dice: “Sarebbe di conforto...”. Allora mi avvicino a lei lentamente, le metto una mano sulla spalla e le faccio segno di tacere, di rimanere in silenzio e ascoltare come faccio io.
Passa poco o un’infinità.
“E’ vero, è una sinfonia” afferma la signorina rappresentante con gli occhi bagnati dalle lacrime e il muco nel naso: “E’ una sinfonia che ti scava dentro: terribile...” aggiunge e aperta la porta se ne va per la strada come un animale impaurito, mentre io me la rido osservandola al di là del vetro avvolto nel mio cappotto di schianti violenti.
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