lunedì 6 luglio 2015

Verso tutti


Il laghetto ritratto nelle cartoline è uno specchio color smeraldo che potrebbe benissimo abbagliare un automobilista al volante su Marte. Le sue rive sono due labbra sottili sporche di sole, di cielo primaverile e del verde acceso dei sempreverdi. Dalla veduta aerea gli alberi sembrano spingersi l’un l’altro verso l’acqua presidiando il bordo del laghetto come dei bagnanti rannicchiati pronti a tuffarsi. In mezzo allo specchio d’acqua un antico santuario si sporge a sua volta da un isolotto che è poco più di uno scoglio, una specie di picco che emerge solitario dalle acque come un dente grigio e verde.
Il laghetto fuori dell’abitacolo è una nuvola a livello del terreno che spruzza pioggia lateralmente come un autolavaggio. Io e la famiglia ci guardiamo, guardiamo in nostri k-way sgargianti e poi apriamo le portiere inzuppando i piedi nella melma grigia del parcheggio. Il vento ci accoglie scoperchiando i cappucci sulle nostre teste e sferzando l’unico ombrello che abbiamo: quel minuscolo e inutile avanzo d’auto, del quale ci si ricorda sempre e solo in condizioni estreme, come queste.


Facendoci coraggio l’un l’altro scarichiamo il passeggino per la piccola e la borsa contente il cambio e i panini e la nostra determinazione sembra ripagata da un leggero miglioramento meteo, quasi istantaneo. La pioggia sembra cessare quasi a comando, come se qualcuno lassù stesse stringendo il pomolo della doccia convinto d’essersi sciacquato le chiappe a sufficienza.
Quelli che pensiamo essere gli ultimi goccioloni ce li becchiamo dritti sul naso a mo’ di benedizione per una gita lacustre nata sotto una stella come minimo in apnea. Rincuorati, prendiamo a girare attorno al lago in cerca dell’attracco delle barche a remi che sappiamo essere al massimo un paio di chilometri a nord del parcheggio. Là vorremmo imbarcarci per l’isoletta e goderci per quanto possibile l’attraversata nonostante il vento soffi e sputacchi ancora come un bambino sulle bolle di sapone.
Tutto procede bene, per quanto possa procedere bene un passeggino con su due bambini affondato in tre dita di fango fresco di giornata e immerso in un boschetto che s’asciuga come i cani: scuotendosi al vento, ma alla prima lamentela da parte nostra, al primo accenno soltanto nei confronti di un meteo tutt’altro che benevolo, ecco che la pioggia ricomincia a cadere fitta.
In mezzo al bosco sembriamo quattro Forrest Gump dispersi nel Vietnam.

Coi calzini e le mutande inzuppate giungiamo all’attracco delle barche dove un barcaiolo ci invita subito a salire sulla sua imbarcazione semicoperta. Prima di farci accomodare il barcaiolo asciuga le sedute con una pelle di daino e noi apprezziamo il gesto nonostante le nostre chiappe siano ben più bagnate del legno lucido della sua bella barca. Pochi istanti più tardi siamo in mezzo al laghetto: con noi una coppia di cinesi che riprende l’attraversata con una telecamera semiavvolta in un sacchetto di nylon trasparente.
I cinesi ridono, noi al massimo riusciamo ad ammiccare.

Arrivati sull’isolotto il barcaiolo ci informa che abbiamo circa mezzora per la visita dopodiché lui tornerà indietro: con noi o senza di noi. A sentirla così pare l’esclamazione di iniziale di un’impresa suicida e forse lo è. Fatto sta che ce ne facciamo una ragione e sincronizzati gli orologi risaliamo la lunga scalinata che porta al maestoso santuario.
Sulle scale c’è parecchia gente che si muove al rallentatore, attenta a non scivolare sul marmo bagnato e logoro e noi li imiteremmo volentieri se solo ci fosse modo di governare i bambini. Quando io mi trovo al terzo gradino loro sono già al decimo e quando io arrivo al decimo loro sono già al trentaquattresimo: non c’è storia e non c’è verso di star loro appresso.
Li guardo andar su spediti come due ragnetti di prato e nel frattempo prego la Madonna, trovandomi tra l’altro in luogo che predispone alquanto.
Quando finalmente arrivo in cima la scalinata vedo che i bambini sono arrivati sani e salvi presso il sagrato e se non tiro il classico sospiro di sollievo è solo perché di fiato non ne ho più: al posto dei polmoni ormai devo avere due prugne secche. Mia moglie come sempre pare messa meglio in arnese e tallona i piccoli fino a una specie di chiosco metallico che ospita una Madonna di pietra nera e tre grosse rastrelliere per le candele.
Piove ancora abbastanza intensamente.

Nel vederle mi vien voglia di pagare subito il debito fatto salendo le scale anche se, per accendere una candela, occorre una moneta da un euro. I bambini del resto appaiono galvanizzati dall’idea di dar fuoco a qualcosa per cui non mi sottraggo e do loro un euro ciascuno per evitare baruffe.
Due lunghe candele bianche s’accendono nonostante l’acqua, il vento e tutta l’umidità che ci portiamo dietro come spugne di lavandino, tuttavia i bambini hanno un piano segreto e quando lo scopro per poco non svengo.
I piccoli, cuor di babbo e mamma, vorrebbero accendere una candela per ogni singola persona alla quale vogliono bene, comprese maestre, vicini di casa e  personaggi dei cartoni animati. All’idea mi sento venire meno e trasportare direttamente in cielo dall’arcangelo Gabriele che non suda neanche un pochino tanto son magro di carne e di portafogli.

Per fortuna però scorgo in un angolo della rastrelliera una candela più grande delle altre, un po’ malformata, una specie di candelotto avanzato in chissà quale occasione e subito ho un’illuminazione celeste: inserisco nella fessura un altro euro e faccio accendere il candelotto ai piccoli, i quali si dimostrano entusiasti dalla cosa, dal fatto di avere una candela diversa dalle altre. Mentre l’accendono dico loro: “Questa è verso tutti” e subito mi sento operatore telefonico dell’aldilà.
Una manciata di minuti dopo siamo tutti di nuovo sulla barca, i bambini ridono e io recito il rosario ripensando al candelotto.

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