Di solito non si fa in
tempo a suonare che la serratura scatta e la porta si apre, ma stavolta non è
così. Ho già suonato due volte e sono indeciso se fare un terzo tentativo. In
fondo all’anima ho una voglia matta di voltare i tacchi e andarmene: non ci
tengo poi molto a farmi agguantare dal dentista.
Invece sto lì, in attesa. Non
suono, resto in ascolto. Da dietro la porta non arrivano i soliti ronzii degli
impianti di trivellazione e neppure il risucchio della maledetta cannetta
aspiratutto.
E’ un silenzio che mi
inquieta, e non poco. Penso a chi deve trovarsi là dentro, sotto le lampade
alogene, sui lettini reclinabili e non riesco proprio ad immaginarmelo in buona
salute. Lo penso drogato a tradimento con un fazzoletto al cloroformio,
immobilizzato al lettino con delle cinghie spesse un dito e larghe tre e
sanguinante, straordinariamente sanguinante dalla bocca.
Ciononostante fatico ad
andarmene. Me ne sto in piedi, immobile davanti alla porta chiusa a trasformare
il mio dentista e i suoi assistenti in spietati aguzzini e nonostante tutto non
me la do a gambe, non ce la faccio. Ho messo radici anzi e le radici camminano
già sotto il pavimento e in qualche maniera esplorano di soppiatto il mondo al
di là della porta invadendo la sala d’aspetto, sollevando al passaggio le
piastrelle, alzando da terra le seggiole siamesi che grattano costantemente il
muro con gli schienali di plastica.
Da lì, dal mio rifugio
esterno, ora mi par di cogliere dei tonfi, del rumori attutiti, come provenienti
da oscure profondità marine. Dei passi pesanti zittiti dalla moquette, delle
mazzate smorzate da una montagna di capelli... L’orrore ormai m’ha circondato i
pensieri, spalancato gli occhi, cucito la bocca, cementato i piedi e non mi
riesce un solo respiro. Di colpo mi sento oppresso dalla penombra del
pianerottolo, minacciato dalla bava di vento che infesta la tromba delle scale,
abbandonato da tutto e da tutti ad un destino quanto mai crudele.
Mi sento quasi venir
meno e cerco di prepararmi alla caduta quando alle mie spalle una porta si apre
su di una sala d’aspetto illuminata. Ne esce un omaccione sulla settantina,
capelli bianchi, naso rosso e una mano poggiata su di una guancia gonfia e
dolente. Uscendo s’accorge che lo fisso stupito o meglio, instupidito e non può
fare a meno parlarmi: “Beato lei...” dice chiamando l’ascensore: “Beato lei che
non deve andare dal dentista!”.