Apre il frigo, dentro
c’è un pomodoro.
Altezza occhi. Si
guardano.
Chiude il portello e
resta lì, perplesso.
Una mano nei capelli. L’altra
ancora sulla maniglia.
Apre di nuovo il frigo,
il pomodoro è ancora lì.
Rosso. Fresco. Sembra
ancora attaccato alla pianta.
La luce gialla gli
dona. Lo fa sembrare magico.
Tutto attorno al
pomodoro è il deserto. Niente di niente.
Non ha fatto la spesa.
Non ci sono avanzi.
Niente vasetti con
cetriolini galleggianti.
Niente culi di salame.
Niente di niente.
Solo il pomodoro.
Lui e il pomodoro sono
gli unici esseri viventi nei paraggi.
Le piante da
appartamento sono tutte morte.
Alle formiche è
piaciuto lo schiuma-party.
C’era un moscone. Ieri
sbatteva sui vetri. Oggi è gambe all’aria da qualche parte.
Però tecnicamente anche
il pomodoro è già morto. O no?
Mentre il frigo gli
alita addosso lui si mette a pescare ricordi.
L’ultima spesa?
L’ultima volta che è
passata mamma?
L’ultimo pomodoro
mangiato?
Chiude il portello e si
allontana pensieroso.
Come fa ad essere
ancora così?
E’ rosso. E’
immacolato. Sembra appena tirato giù dalla pianta.
E’ domenica.
Mezzogiorno scivola giù
dal campanile.
Attraversa il sagrato.
Scivola tra le gambe
delle signore.
Inforca via Verdi.
Taglia a destra per via
Meucci.
Al civico 21 si infila
in un portone e poi su per le scale.
Terzo piano, prima
porta a destra.
Lui è dentro, scalzo
sulle mattonelle. Pensa ancora al pomodoro.
Mezzogiorno si fa
passare per un brivido.
Sale sui piedi.
Scala la schiena.
S’attacca ai denti.
E su, su.
In bocca diventa
liquido e lui lo butta giù come niente.
Non appena entra nello
stomaco Mezzogiorno diventa fame.
Lui allora torna
indietro. La fame lo spinge.
Apre il frigo.
Agguanta il pomodoro.
Lo addenta.
Un rivolo arancione gli
scivola veloce da un angolo della bocca.
Sul mento rallenta.
Si gonfia, diventa
goccia e poi cade. Giù.
Si spalma tutta sul suo
piede sinistro.
Pian piano torna il
rivolo e la corsa riparte.
Il pomodoro non è
affatto stopposo.
Lui lo trova buono.
Molto. Quasi dissetante.
E’ un incontro
fortunato.
Mai mangiato uno così.
In piedi. Scalzo. Davanti
al frigo aperto.
Senza lavarlo.
Senza condirlo.
Senza sapere di dove è
venuto.
Finito si succhia le
dita.
Si ripulisce il mento
col dorso della mano.
S’asciuga la mano sulle
braghe del pigiama.
Infine chiude il frigo.
Dice: “Addio, pomodoro”.
Ma è solo un
arrivederci.
Subito dentro cade
qualcosa.
Senza preavviso. Senza
rumore.
Uno straccio
appallottolato. O meglio, una spugna.
Lui la sente bere dentro
allo stomaco.
Gonfiarsi.
Occupare.
Grattare le pareti.
Ora sente anche il freddo
ai piedi.
No, il freddo è dentro.
Dentro le ossa. Nei
muscoli. Nei tessuti interni.
Qualcosa in lui sta mutando.
Il fisico.
I connotati.
I sentimenti.
La fame non c’è più.
Tutto è compromesso. Ora.
Tutto è compromesso da
un pomodoro.
Un pomodoro immortale.
(epilogo)
Rannicchiato sul
divano.
Mani a X sulla pancia.
Sopporta a fatica.
Se stesso.
La tv accesa.
E quel tizio che parla
di coltivazioni.
Di varietà e di
conserve.
Di pomodori.